Questa è la prima lettera a un giovane ricercatore che mi decido a pubblicare.
Nel corso degli anni ne ho scritte diverse, per incoraggiare, re-indirizzare, supportare, licenziare e lasciar andare.
Perché oggi?
In questo strano mese, diversi stimoli di riflessione convergono: le conversazioni con i clienti si accavallano intorno allo stesso tema: cosa succederà alla ricerca (marketing research)? Nelle associazioni e nei comitato i vari stakeholder domandano come affrontare i prossimi mesi, i prossimi anni. Arriva il periodo degli esami, delle commissioni di tesi. Iniziano i colloqui con gli aspiranti tirocinanti.
Credo sia il momento di condividere alcune osservazioni.
Non serve un elenco di competenze, di libri da studiare e di buoni consigli (non ho ancora smesso di dare il cattivo esempio); serve (o almeno credo che serva) riflettere ad alta voce sul senso futuro di questa professione, e per farlo credo che alcuni “esercizi mentali” siano utili.
Qualche revisione, per nascondere riferimenti personali e chiarire alcuni impliciti pregressi, mi si perdonerà l’istrionismo.
Ciao S.,
Grazie ancora per le tue domande e i tuoi dubbi, disseminati nei diversi scambi che abbiamo avuto.
Credo sia arrivato il momento di condividere alcune riflessioni, per chiederci assieme cosa verrà dopo.
Tra poco dovrai scegliere e cercare un tuo percorso: dici che vuoi occuparti di ricerche di mercato.
Ma cosa significa, davvero, occuparsi di ricerca psicologica applicata al marketing?
Siamo figli di un dio minore, perdonami l’ovvietà.
La psicologia è una scienza (già non è scontato definirla tale) giovane, in cui i paradigmi si contrappongono, si evolvono e scompaiono molto velocemente.
Proprio per questo la prima sfida che dovrai affrontare quotidianamente, sarà costruire e difendere la tua credibilità.
E lo potrai fare solo se avrai piena consapevolezza dei tuoi obiettivi e delle tue risorse.
Oggi va di moda la UX Research; si parla di design research; troverai chi si occupa di neuromarketing research… di realtà virtuale e di social media research.
Sarai tentato, ogni giorno, di trincerarti dietro a un’etichetta: sono comode, rassicuranti e facili da vendere. Ogni etichetta, ogni paradigma, ogni approccio a priori offre metodi, processi e tecniche predefiniti, che semplificheranno il tuo lavoro; ogni paradigma ha le sue tecniche, che ti aiuteranno a dialogare con i tanti interlocutori. Impadroniscitene, falle tue.
E poi abbandonale, perché limiteranno la tua visione.
Le persone non sono utenti, non sono cervelli, non sono consumatori, non sono target, non sono clienti, non sono partecipanti, non sono rispondenti.
Io non smetto di essere padre mentre gioco a The Last of Us; non smetto di essere curioso mentre faccio la spesa; il mio reading pattern non cambia, se sto leggendo un libro o le istruzioni della fresatrice per il legno o il sito all news del momento.
Tu non smetti di essere uno psicologo, quando fai Taekwondo; le tue attitudini riguarda alla vita non cambiano, quando fai la spesa o mentre cucini.
Ho imparato a mie spese che ogni etichetta funziona fino a quando non si scontra con la realtà e la sua complessità.
Ad esempio, la UX Research è nata per comprendere l’esperienza d’uso di un artefatto/servizio. In pratica, per descrivere il comportamento degli utenti. Perfetto: proprio quel che serve per aiutare a progettare il nuovo sito del cliente.
MA (c’è sempre un ma) per essere davvero utile al designer, ti serve capire quali sono i bisogni che guidano quella persona sul sito… Ok. Allora allarghiamo la definizione e coinvolgiamo anche empatia, insight generation et similia.
MA ti chiederanno anche di valutare l’efficacia del nuovo design. Quindi perché non scalare con i numeri e studiare gli atteggiamenti dei nuovi utenti verso il re-design?
Ed ecco che la UX Research scivola piano piano verso qualcosa di più sfumato, di meno focalizzato. Torna a essere ricerca psicologica.
Sai che mi piace contraddirmi ed ecco quindi una definizione del nostro lavoro.
La mia (e quella dei giganti sulle cui spalle cammino):
La ricerca applicata al marketing significa comprendere le persone, e cercare un modo per renderle felici (anche solo momentaneamente).
Non è facile comprendere le persone.
Significa prima di tutto conoscerle. E decidere cosa vorrai e potrai conoscere.
Per questo, domandati sempre: cosa è per me una persona?
La tua risposta cambierà, l’esperienza si stratificherà, imparerai dai tuoi errori, leggerai, incontrerai interlocutori diversi.Va bene così: non innamorarti troppo delle tue idee.
Imparare, cambiare idea, sorprendersi: le nostre giornate sono (o dovrebbero essere) fatte di questo.
Abbiamo il dovere di mettere alla prova le nostre convinzioni e capire come farlo.
È una strada in salita (ma senza i benefit di un bel panorama o dell’alta quota). Richiede di studiare, per conoscere i metodi: quando li avrai imparati, usati e ti sarai fidato di loro, fallendo, potrai modificarli, imparare ad adattarli alle domande che ti sei posto e agli obiettivi del tuo committente.
A ogni progetto, domandati: cosa ho imparato? Cosa non ha funzionato? Cosa non ho capito? E raccogli le tue risposte e le tue domande, così da poter tornare a leggere ogni tanto.
Sì, segnati anche le domande. Perché lì risiede il cuore del nostro lavoro. Guardati dal ricercatore che ha tutte le risposte, perché ha smesso di cercarle. Ha cambiato professione (e ne ha trovata certamente una più redditizia, credimi).
Spero che queste riflessioni ti aiutino, nelle prossime settimane, quando ti interrogherai sul tuo futuro.E rimango in attesa delle tue prossime domande.